Paco y Manolo continuano a dimostrare come il corpo, nelle sue infinite declinazioni, possa essere iconico ed esplodere di sensualità e desiderio. La loro mirada è un atto artistico punk dalla potente carica erotica, è per questo motivo che la comunità LGBTQ+ li ha scelti e voluti come voce narrante. Paco y Manolo hanno messo a disposizione la propria arte per raccontare sé stessi e un mondo che cambiava.
Quella di Paco y Manolo è una fotografia che supera etichette e vanità fotografica, nasce da una ricerca estetica che ha le sue radici nel punk, nel cinema del desiderio e nella materialità dell’oggetto fotografico. Paco y Manolo sono tra i pochi artisti della fotografia che hanno il controllo completo della propria attività, la loro rivista Kink è un oggetto iconico e deflagrante, intimo nel racconto dei chicos che in ogni numero si spogliano di fronte agli obiettivi delle loro camere.
Paco y Manolo sono arrivati a Kink dopo una lunga carriera di successi: le collaborazioni editoriali con le riviste, il volume Common People (2004), raccolta di nudi che hanno come soggetto persone comuni, la lunga esperienza come fotografi ufficiali del Festival Primavera Sound di Barcellona, celebrato in DIEZ AÑOS DE PRIMAVERA SOUND 2001/2010 SEGÚN PACO Y MANOLO (2011), e infine la mostra Memento Mori (2012/2013) in cui i loro ritratti dialogano con i disegni di Sito Mújica, esperienza che aprirà a diverse collaborazioni con artisti del disegno erotico, oggi ospitati fra le pagine dei «quaderni» che troviamo in allegato alla rivista.
Il vostro è un longevo e proficuo rapporto creativo, si dà il caso sia anche una grande storia d’amore. In che modo vita privata e lavoro creativo convivono e crescono insieme a voi?
P: per noi vita e lavoro sono un’unica cosa. Abbiamo iniziato presto a lavorare insieme, subito dopo esserci conosciuti.
M: quando ci siamo conosciuti io andavo all’università e non avevo intenzione di fare il fotografo, era Paco che faceva foto. All’inizio, lui mi mandava i suoi scatti e io le presentavo come mie all’università. Non c’era nessuna intenzione di pubblicarle in una rivista, volevamo essere fotografi d’arte come Robert Mapplethorpe e Diane Arbus. Improvvisamente però succedevano cose che ci facevano pensare: vogliamo guadagnarci la vita con questo. Fu allora che cominciammo a pubblicare sulle riviste. In quel periodo il nostro lavoro era più staged, usavamo il treppiede e le foto erano rigorosamente in bianco e nero. Noi venivamo da quel modo di lavorare, oggi invece facciamo foto per un progetto che non ha nulla a che fare con la fotografia editoriale, siamo liberi dal vincolo della commissione e utilizziamo mezzi che prima non usavamo.
Kink è giunto al suo trentaseiesimo numero. Sfogliandone le pagine ho l’impressione stiate realizzato il vostro racconto della comunità gay/queer. È così?
M: non ha nulla a che vedere con il mondo gay/queer contemporaneo. Abbiamo una visione del sesso che non ha nulla dell’estetica di oggi. Persino quando scriviamo non parliamo dei modelli ma di noi, della nostra storia e del modo in cui vediamo la realtà.
P: Non scegliamo mai i modelli. Non abbiamo mai chiesto a nessuno di farci da modello. Non è che ci sia una tipologia specifica che selezioniamo, sono le persone che si propongono.
M: si va dall’individuo alla comunità.
P: quello che raccontiamo e ritraiamo nella rivista non è lo stesso di sedici anni fa. La rivista si è evoluta ed è cambiata. Oggi è da considerarsi un diario, nel quale raccontiamo quello che abbiamo vissuto nel periodo prima della sua uscita. Kink non ha a che fare con il sesso né con i modelli, Kink parla di noi. Quello che effettivamente riflette la comunità LGBTQIA+ sono le persone che fotografiamo.
Sono arrivato in città da poco, quando vi ho conosciuto e ho tenuto fra le mani il mio primo Kink, ho avuto l’impressione di aver finalmente incontrato la realtà artistica più viva e genuina della città. Qual è il vostro sguardo su Barcellona e sulla Catalogna, che con la sua natura imponente è spesso protagonista, insieme ai ragazzi, dei vostri scatti?
M: abbiamo sempre considerato il nostro sguardo come mediterraneo nella sua accezione classico-ellenica. Nel mondo mediterraneo classico non esisteva vergogna del corpo. La maggior parte delle persone vede tutte le forme di feticismo come un tipo di sessualità legata alla colpa. Noi vogliamo tornare al mondo mediterraneo classico, ci poniamo nei confronti del corpo e della vita in modo molto diverso rispetto all’immagine del sesso veicolata dalla cultura americana. La Spagna, nello specifico, è libera nella rappresentazione del corpo e del sesso e si allontana da altre visioni occidentali più mainstream come quella statunitense.
La prima volta che vi ho incontrato eravamo alle manifestazioni che si sono tenute in luglio per la terribile aggressione omofoba che ha portato alla morte di Samuel Luiz. Com’è cambiato il contesto sociale nei confronti della comunità LGBTQ+ in Spagna?
P: Non credo sia migliorato molto. Oggi il partito di estrema destra VOX è in auge e ci sono sondaggi che mostrano come stia già superando il Partito Popolare, la destra cosiddetta moderata, per questo motivo credo che di fronte a noi si prospetta solo un peggioramento.
Questa violenza omofoba era più forte nel passato?
P: C’è sempre stata ma oggi è ancora più violenta, chiunque può dire qualunque cosa contro le minoranze, compresi i capi di partito e questo è un problema molto grande.
Quest’anno è uscito Todo a la vez, documentario che racconta il vostro lavoro, per la regia dello scrittore cileno Alberto Fuguet con produzione italiana (The Open Reel). Com’è stata l’esperienza di essere dall’altra parte dell’obiettivo, oggetto di racconto?
P: É stato meraviglioso, non ce lo aspettavamo affatto. Inizialmente non volevamo farlo e per tre volte rifiutammo. Poi vennero a conoscerci il produttore Arturo Iglesias e il regista Alberto Fuguet e ci convinsero. Noi non pensavamo che il nostro lavoro, la nostra vita e il nostro modo di essere, potessero essere materiale per un film. Alberto ci disse che sarebbe stato lui a creare la narrazione e allora dicemmo di sì.
M: Fu un lavoro molto intenso, di quasi 20 giorni. Immaginalo come quello che stiamo facendo adesso ma ogni giorno per 20 giorni di fila! Finimmo senza voce, regista incluso! Fu tutto molto intenso, più di una volta finimmo anche per piangere.
Kink non è solo un insieme di foto e narrazioni, è anche un oggetto di alta godibilità: la scelta della carta, i colori, il layout. Qui con noi oggi c’è Francesc Mulet, fondamentale nella realizzazione materiale di Kink. Francesc, sei tu ad aprire il documentario Todo a la vez, dicendo una cosa bellissima, che per te Paco y Manolo sono famiglia. In che modo il tuo lavoro influenza e si coniuga al loro?
P: Realmente Kink siamo tutti e tre. Le immagini delle nostre foto sono una meraviglia (ridono tutti) però Kink non esisterebbe se non fossimo noi tre.
Francesc: Il numero nasce da scelte che facciamo insieme. Ognuno di noi sa qual è la sua parte nel processo. Una volta fatte le foto ci riuniamo, Paco e Manolo hanno già preparato una selezione ma è insieme che scegliamo le foto che andranno nel numero. Una volta che abbiamo deciso e tutto è compaginato mi lasciano lavorare da solo. Paco e Manolo preparano anche il testo, la parte finale invece è il mio lavoro.
M: Per esempio ci sono alcune pagine che Francesc ha preparato per il numero appena uscito e non è che ce le abbia mostrate per avere approvazione.
Francesc: Inizio con l’eccesso, ci sono volte in cui preparo tre versioni della rivista ma a voi (si rivolge a Paco e Manolo) ne mostro solo una. É un processo lungo e difficile, arrivo al prodotto finale dopo molti sforzi.
PyM: Una cosa alla quale lavoriamo sempre tutti e tre insieme è la copertina. Parliamo di come posizionare il logo, del testo, proponiamo diverse opzioni e discutiamo su quale possa essere la scelta migliore, soprattutto perché dovremo difendere quella copertina per i sei mesi successivi alla pubblicazione. Certo, lavorare in tre, con tre teste pensanti, può essere alle volte positivo, altre meno.
Francesc: potremmo sicuramente avere uno schema fisso ma preferiamo che ogni numero sia differente. È raro che la scelta di una copertina sia definita da quella precedente.
P: quando lavoriamo alla copertina non pensiamo al fatto che possa vendere o meno ma solo alla foto che pensiamo sia migliore, per esempio nel numero 30 la copertina è una cascata con un ragazzo che si vede appena. Vogliamo scegliere liberamente la foto che più ci piace, senza pensare troppo alle dinamiche di mercato.
Un dettaglio che amo in Kink è la nota in cui segnalate al lettore le camere e le pellicole che avete usato per i servizi presenti nel numero, a sancire una volta di più l’importanza della materialità del vostro lavoro. Che consigli dareste a chi si avvicina alla fotografia per la prima volta?
Francesc: Ah lo hai notato? Sono cose che mettiamo e pensiamo «nessuno le leggerà!».
M: Di essere molto costanti. Per quanto talento tu possa avere, la costanza è la cosa più importante.
Francesc: Chi si approccia alla fotografia deve farlo guidato dalla passione.
P: È stupendo poter vivere facendo foto ma ovviamente è complicato riuscirci.
M: Facciamo foto da 28 anni e pubblichiamo da 26, abbiamo visto passare una miriade di fotografi e quelli che hanno continuato sono quelli che hanno avuto più costanza e passione.
Todo a la vez doveva chiudersi con l’immagine di voi tre incorniciati da un gioco di fuochi d’artificio in Plaza de España per la Noche de San Juan, ma quasi a sorpresa il documentario riprende per raccontare come è cambiato il vostro sguardo dopo il primo lockdown (marzo-maggio 2020), causato dalla pandemia di Covid-19. È struggente vedere in quelle foto, i corpi dei ragazzi incorniciati dagli ambienti domestici, le loro espressioni, persino nell’orgasmo, sembrano risentire la costrizione di quei giorni. Quanto è cambiata la mirada di Paco y Manolo dopo il confinamento?
P: inizialmente eravamo un po’ spaventati per quello che stava accadendo. Devi considerare che per noi ha più importanza il modello, la persona, che l’idea della fotografia. Per noi è fondamentale che il modello si senta a proprio agio, noi siamo come spettatori e questo non può cambiare. Ci focalizziamo sul modello, su come reagisce fin dal minuto zero.
M: Beh, questo è stato un processo che abbiamo perfezionato con il tempo. Inizialmente eravamo più timidi, specialmente quando un modello si imponeva. Quelle non erano sessioni di successo. Abbiamo bisogno di trovarci a nostro agio con il modello ed entrare nel ruolo di spettatori.
Cos’è che influenza maggiormente il vostro lavoro?
P: Io credo che la nostra mirada cambi continuamente in base agli input culturali ai quali ci sottoponiamo: libri, film, musica, arte, (si rivolge a Manolo) ti ricordi quando facemmo tutte quelle foto con i ragazzi sugli alberi? O quando all’improvviso era tutto un focalizzarsi sui capezzoli?
M: questo è successo perché probabilmente abbiamo visto qualcosa che ci ha spinti in quella direzione, quindi, sì la mirada può cambiate a causa di particolari input che abbiamo ricevuto. Ad esempio, senza la Trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini Kink non esisterebbe, non potrebbe neanche essere compreso.
P: I ragazzi di Pasolini che corrono liberi e nudi sono una forma di verità. Pasolini era completamente libero. Qui in Spagna i suoi film sono usciti in sala per la prima volta dopo la morte di Francisco Franco.
Credo che anche la musica sia molto importante.
M: Sì, scegliamo sempre una canzone che chiuderà il numero (l’ultima pagina di Kink è effettivamente una citazione musicale con tanto di QR Code che apre il video della canzone scelta). Ognuno di noi fa una proposta ed è lì che si vede tanto la differenza fra di noi.
F: É importante che la musica che scegliamo abbia una relazione con il nostro modo di intendere la fotografia, con le immagini su cui stiamo lavorando.
Il vostro lavoro ha come obiettivo quello di liberare la carica erotica dell’individuo ritratto in modo naturale, lontano dal divismo social. Qual è il vostro rapporto con la rete e con applicazioni legate alle immagini come Instagram?
P: Nel 2003 iniziammo a tenere una pagina web per El Mundo, facemmo delle foto ad un cantante che aveva un blog e allora pensammo di farlo anche noi. Decidemmo di pubblicare almeno una foto al giorno. Avevamo un contatore di visite, ci rendemmo conto che stava funzionando davvero.
M: Era un periodo di grande evoluzione nei mezzi di comunicazione, avevamo la musica elettronica, i club, i festival, i party, le fanzine che diventavano riviste istituzionali e per le quali lavoravamo anche noi.
P: Certo, non avevamo macchine fotografiche digitali, per cui dovevamo sottostare a un ordine di lavoro diverso. Nel 2013 abbiamo deciso di chiudere il blog e di iniziare con Instagram.
M: Io su Instagram mi occupo dell’account di Kink (kinkediciones), per me è un modo di mostrare al mondo il prodotto, è Paco a curare l’account paco_y_manolo, lì abbiamo dei contatti più diretti e in tempo reale con le persone.
P: Instagram non ti lascia ampia libertà ma è uno strumento che ti permette di connetterti con una determinata fetta di pubblico. Il 50-60% dei ragazzi che fotografiamo non conosce la rivista ma solo i nostri account Instagram, ignorano che esista una rivista fisica! Sarò di un’altra generazione ma io non concepisco l’arte senza un supporto materiale.
Guardiamo avanti. Che progetti hanno Paco y Manolo per il futuro?
PyM: Molti piccoli progetti. Abbiamo appena aperto una esposizione: Monomanía, con una selezione del nostro archivio. Ecco, una cosa che credo sia cambiata con la pandemia è il non fare piani, non pianificare nulla. Abbiamo deciso di dedicarci a progetti di portata più contenuta ma soprattutto evitiamo di fare piani a lungo termine.